Pochi conoscono l’origine di uno dei porticati più antichi della città di Napoli, quello di Palazzo d’Angiò lungo via dei Tribunali. Proprio qui, alcuni anni fa, conobbi la famiglia De Cesare, che abitava in quello che è considerato il più antico palazzo napoletano, appunto Palazzo d’Angiò, il cui accesso avviene dai caratteristici quattro portici in piperno, un tempo luogo di un caratteristico mercato rionale, oggi stracolmo di attività ristorative e pizzerie. Un palazzo davvero caratteristico che ha conservato molti elementi storici; ancora oggi, tra tavolini e una miriade di turisti, si può notare il tradizionale portale ogivale sul quale sono ben evidenti i gigli angioini.
I coniugi De Cesare, Arturo e sua moglie Maria, hanno gestito per anni una piccola macelleria nei pressi di Vico Cinque Santi, lì da tempo immemore. Prima ancora di Arturo, suo padre Armando e suo nonno avevano messo su quello che per tutti era il “chiacchiere” di quartiere.
Fu proprio don Arturo che mi raccontò l’origine del nome “chianchiere”, che, sebbene in disuso, qui al Sud e in particolare a Napoli, ancora utilizziamo.
Un tempo, le macellerie esponevano la propria merce su un trespolo di legno, ancora oggi utilizzato a Napoli, chiamato “planca”. Col trascorrere del tempo, quel termine in dialetto è diventato “chianca”, ed è così che chi utilizzava quel “trespolo” è diventato, grazie alla nostra originale inventiva, Chianchiere!
Don Arturo, per tutti, era un’istituzione. Sebbene anziano, ha tramandato ai suoi 5 figli un’antica tradizione che a sua volta ha ereditato dai nonni.
Durante la settimana, di ogni taglio di carne venduto, ne prelevava sempre una piccola fetta in più, deponendola in un antico cesto di famiglia. Ed è così che fetta dopo fetta, pezzo dopo pezzo, la domenica mattina sua moglie Maria preparava in un grosso pentolone il tipico ragù napoletano.
Ciò che si celava dietro quel ragù, oltre al tipo di cottura, era la verità della carne utilizzata, composta da salsicce, pezzettoni di muscolo per ragù e prelibata carne di manzo per realizzare le braciole. Carne di prima scelta, cotta facendo “pappiare” quella salsa per ore e ore, per poi donarla ad alcune famiglie del quartiere o, come spesso accadeva, ad anziani rimasti soli. Con alcuni di questi, erano spesso proprio i due coniugi, che si fermavano a pranzo, regalando qualche ora di buona cucina, ma soprattutto di sana compagnia.
Oggi dei coniugi De Cesare e di quella macelleria ne è rimasto solo il ricordo, ma da alcuni anni, questa antica tradizione viene ancora portata avanti dai loro 5 figli. Sebbene nessuno di loro abbia proseguito l’attività di “chianchiere”, tra docenti di scuola, presidi e architetti, ogni domenica a turno preparano quello stesso ragù, donandolo alle mense della città e utilizzando quella stessa ricetta e quello stesso metodo di preparazione che Assunta ha tramandato loro.
Questa città non finisce mai di stupire; cambiano le generazioni, ma le tradizioni si tramandano, rendendo questa città un continuo controsenso, dove c’è chi silente dona una parte della propria vita a chi non ha nulla.
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Storie verosimili della città di Napoli n. 83: La famiglia De Cesare e il loro tradizionale ragù della domenica
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